E’
bianco/avorio, corpulento ma svigorito, e sta attaccato con le briglie alla
siepe verde, antistante alla facciata della mia casa, quella che la separa dalla
strada del Belvedere: si tratta di una strada provinciale ma comunque molto
trafficata.
Parlo del
nostro cavallo che lì legato con il suo corpo occupa buona parte della via e dà fastidio agli automobilisti che giunti
qui sono costretti a rallentare per aspettare che il cavallo si sposti e li
lasci proseguire.
Imprecano uno
dopo l’altro per il fastidio arrecato e ciò mi spinge a
intervenire.
Sciolgo il
cavallo, ma non ho altro posto dove metterlo. Non ho un giardino e la casa
all’entrata ha le scalinate e non posso portarlo neppure nel cortile, davanti
alla cantina.
Provo a
risolvere il problema legando diversamente l’animale alla siepe: gli accorcio le briglie, ma anche così non va
bene.
Il cavallo
nitrisce, scalpita e si agita.
Noto che sta
strisciando con una parte del corpo contro i rami della siepe e già vedo diverse
parti di pelle graffiata e finanche ferite sanguinanti insieme ad altri segni
già cicatrizzati che stanno a testimoniare precedenti sofferenze procuratesele
stando nella stessa posizione.
Me ne
rammarico ma non so che altro fare.
Mi rendo conto
che, al momento, non ho altre soluzioni se non lasciarlo occupare la carreggiata
sperando che sia lui stesso a capire la pericolosità della situazione e che si
sposti al sopraggiungere delle auto.
Deciso questo,
lo guardo a lungo e mi accorgo che è
davvero vecchio, troppo vecchio.
Lo tengo da
tanto tempo e non l’ho quasi mai cavalcato sia per mancanza di tempo sia per
mancanza di spazio.
Mi è venuto in
mente che mio fratello ha espresso diverse volte il desiderio di liberarsene.
“Ormai quel
cavallo non ci serve più e ci è sempre più difficile mantenerlo”- così l’ho
sentito dire, diverse volte.
Ma io,
nonostante le evidenti e innegabili difficoltà,
non sono del suo stesso parere.
Guardo ancora
il cavallo; lo fisso a lungo e con impeto gli dico: “Sei vecchio; non ce la fai
più e sei costretto in questo mal modo, ma non mi importa, resterai sempre con
me; non permetterò a nessuno di portarti al
macello.
Gli dico
questo nella piena consapevolezza che comunque presto lo perderò, per il
naturale decorso del suo ciclo di vita.
In questo
preciso momento il cavallo si gira verso di me e, guardandomi a sua volta, con
uno sguardo triste e malinconico, mi dice: “Volevi galoppare e non l’hai fatto.
Non hai corso come desideravi”.
Lo guardo per
un brevissimo istante negli occhi e sono sbalordita. Lo stupore dura poco perché
dopo qualche istante il cavallo non c’è più: svanisce nel nulla e al suo posto
appare, come per incanto, il volto di papà e quegli occhi che io continuo a
vedere ora sono gli occhi di papà.
Non c’è
sorpresa in me per l’accaduto! E’ come se io già lo avessi previsto.
E’ come dire
che parlando al cavallo per me era già come parlare a mio
padre.
Ora che i due
momenti sono definitivamente fusi, io
continuo a guardare come se nulla fosse successo e rispondo con
altrettanta malinconia: “E’ vero volevo galoppare di più con te, ma non ho avuto
il tempo di farlo e la mancanza degli spazi non mi ha incoraggiata. Ma, ora, se
io potessi chiedere al tempo di fermarsi per farmi stare di più con te, per
cavalcarti di più, per fare quello che non ho fatto finora, per ricominciare da
dove ho lascito, lo farei volentieri.”
E così
parlando i nostri sguardi si incontrano e si fissano: avverto delle lacrime nei
miei occhi ma ne vedo alcune anche nei suoi.
Commossi,
entrambi ci abbracciamo fortemente: sentiamo il bisogno struggente di
rincuorarci a vicenda.
Mi pervade un
forte senso di malinconia per un rapporto affettivo che già sento di nuovo
sfumare. E difatti di nuovo svanisce e non mi lascia il tempo di
capire.
Avverto lo
strazio del distacco; una fitta dolorosa mi attanaglia e mi sveglia dal sonno e
interrompe il mio sogno…
Svegliatami,
ho capito che papà mi manca e ancora lo vorrei con me, accanto a me, per
raccontargli la mia vita, i miei desideri, i miei
sogni…
Eppure quando
l’ho perso ero grande: avevo all’incirca 37 anni mentre lui ne aveva
76.
Era sofferente
e vivere per lui era diventato un gran peso.
La morte ha
posto fine alle sue pene e allora perché io ancora non me ne faccio una ragione,
a distanza di tanti anni?
Eppure gli
affetti non mi mancano e conduco la vita che
voglio.
Mi sono anche
ricordata di quelle confortanti parole lette poco tempo prima della sua
dipartita: “Non piangere perché lo stai
per perdere, ma ringrazia perché l’hai avuto”.
E così
ricordando mi ridesto del tutto.
Di colpo
avverto che è cessata la tristezza insieme a quella morsa di nostalgia che mi
aveva procurato dolore.
Ora, sebbene
sia ancora buio e l’alba neppure si intravede, sono sveglia.
Non riesco a
riaddormentarmi.
Del sogno mi
resta addosso la piacevole sensazione dell’abbraccio
ricevuto.
Rivedo mio
padre, i suoi occhi che mi guardano affettuosi più che mai e, per mia fortuna,
mi sento ancora amata da lui, come prima, come quando stava in
famiglia.
Sono così più
convinta, e il sogno me lo conferma, che l’amore profondo non muore mai: vive,
sopravvive, ritorna, va e viene, e ci dà sempre quella carica affettiva di
energia che alimenta il nostro agire quotidiano e ci spinge ad andare avanti, a
riprendere il nostro cammino.
Certo ora, a
distanza di qualche ora, sono ancora un po’ frastornata dal sogno
fatto.
Mi alzo dal
letto; vado in bagno e vedo che anche mia madre è
sveglia.
Le chiedo:
“Perché non dormi? E lei mi dice: “Ho sognato tuo padre: era qui accanto a me.”
E allora ho
capito: davvero non restiamo soli.
Gli affetti
non muoiono, continuano a farsi sentire, ci invitano ad andare avanti…
Riflettendoci
di più, ho capito che per me è giunto il tempo di riprendere a
galoppare.
Devo cavalcare
ancora i miei sogni, sospinta da questo affetto senza
fine.
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