La storia degli “Sbanditi”
Si narra che tanti anni fa, ai Colli
di Fontanelle, arrivarono dei cosiddetti “sbanditi”, ovvero
furfanti, briganti o pirati, che erano stati condannati e messi al bando dallo
Stato italiano per la loro deplorevole condotta.
Questi per evitare la
galera e/o l’esilio dalla patria, si rifugiarono nel nostro piccolo centro
rurale, arroccandosi nelle zone più impervie del paese, come Sant’Elia, e più
alte, come le Tore. Qui si mischiarono con gli abitanti del posto e trovarono facile
ambientazione, giacché da noi risiedevano per lo più contadini e pastori che,
presi dal duro lavoro della terra, poco s’interessavano a loro.
Così essi vissero
indisturbati e, soprattutto, non rischiarono di essere riconosciuti e
denunciati alle autorità giudiziarie.
Avevano portato con
loro parte dei loro bottini, frutti di atti illegali, e, spesso, ricompensavano
la gente del posto con oggetti d’oro, anziché monete allora in uso.
Non ci volle molto per
capire che avevano immense fortune e, infatti,
pur se abbastanza appartati dagli altri, vivevano bene e spendevano tanto: acquistavano
spesso vino locale e alimenti genuini, come prodotti agricoli, appena raccolti,
e formaggi fatti in casa dai contadini.
Nel paese, per quanto
non fossero violenti, come probabilmente lo erano stati in gioventù, si
mostravano comunque burberi: erano solitari, schivi, diffidenti e scontrosi.
Raramente raccontavano
episodi del loro passato e, quando succedeva, parlavano di brigantaggio
o raccontavano strane avventure a carattere piratesco, come arrembaggi, litigi
nelle osterie, duelli con spade affilate e ruberie varie, quasi a riprova di un
lato oscuro del loro trascorso.
Ciononostante, molti
abitanti del posto erano affascinati da loro e li rispettavano perché li ritenevano persone serie, nonché ottimi clienti. E, a quei tempi, non era
cosa da poco avere a che fare con dei buoni acquirenti!
Difatti, il paese era
povero e per la gente del posto guadagnarsi di che vivere era un’impresa.
Molti contadini non
possedevano denari e neppure riuscivano a guadagnarne. Per questo motivo si
erano inventati il cosiddetto “lavoro a
rendere”, vale a dire che chi ne aveva necessità, di buon mattino, si recava da
altri coltivatori per fornire la propria manodopera, ma, anziché con denaro, si faceva ricompensare
con scambio di favori e di servizio, secondo il criterio “oggi io vengo da te e
domani tu verrai da me”.
Con questo sistema di
manovalanza, gli agricoltori riuscivano
a coltivare meglio la terra e a ricavarne abbondanti produzioni. Ma, certamente,
così facendo, non maneggiavano soldi e, pertanto, non potevano pensare, neppure
lontanamente, di arricchirsi, né potevano comprarsi il necessario, non proveniente
dalla terra, ovvero arnesi e attrezzature migliori o, addirittura, alimenti per
i quali non era possibile il “baratto”, come lo zucchero, la pasta, il pesce,
ecc.
Figurarsi quindi come
a quei tempi si gioiva quando si trovava qualcuno che acquistava i prodotti dei campi pagandoli subito!
Intanto gli anni passavano e la
convivenza tra “sbanditi” e locali divenne sempre più naturale pur se i primi
continuavano a vivere lontano dal centro abitato e a prediligere la solitudine
alla compagnia. Addirittura taluni vivevano quasi come eremiti e fatti, una
volta al mese, gli indispensabili approvvigionamenti,
se ne stavano rintanati per lunghi periodi nelle loro abitazioni, altri si
dedicavano quasi esclusivamente ai loro hobby preferiti, come coltivazione
dell’orto, caccia, pesca, ecc.
Le loro case erano per
lo più ripari abbandonati o naturali come vecchie cascine, misere capanne,
grotte e anfratti presenti nelle pareti rocciose delle zone più montuose.
Ma c’era pure chi il
rifugio se lo costruiva con le proprie mani. Un evidente esempio di queste
costruzioni è ancora presente nella zona
alta del nostro paese: si tratta di una piccola casetta, ormai in rovina.
Questa è la rinomata
“Casa dello Sbandito”, ufficialmente riconosciuta come “Grotta del Brigante”:
trattasi, a mio parere, di una vera e propria
opera antica d’ingegneria edile, degna di essere preservata
dall’incuria.
La costruzione, difficilmente
accessibile, è rudimentale, a due piani; è stata eretta nella cavità di una
montagna, caratterizzata da stalattiti, in un posto spettacolare ma impervio e
pericoloso, con pareti a strapiombo sul mare.
Il piano terra
probabilmente era destinato alla cucina, vista la presenza di un piccolo
focolare, con pietra viva ancora annerita dal fuoco, mentre sopra si andava
solo per riposare o per dormire. La particolarità di questa struttura sta
nell’impianto per la fornitura dell’acqua. Difatti, dietro al fabbricato, fu
scavata dal costruttore una grande cisterna che raccoglieva l’acqua piovana che
gocciolava dalle stalattiti o che scorreva lungo le pareti della montagna, nel
periodo delle piogge. Poi, fu aperta una
finestrella nel muro della cucina, in corrispondenza della cisterna, in modo
che si potesse attingere, al momento del bisogno, l’acqua direttamente dal
pozzo, senza uscire dall’abitazione.
Bella invenzione in un
tempo in cui il nostro paese era ancora sprovvisto di acquedotto!
La cisterna è tuttora
piena di acqua.
Ebbene, si racconta
che molti “gioielli”, tratti dai passati furti, siano stati poi sotterrati nei
campi agricoli del paese o direttamente dagli “sbanditi” o da coloro che li
avevano ricevuti come valuta per l'acquisto dei loro prodotti.
Di qui la scatenata
caccia al tesoro alla ricerca di questi oggetti preziosi nascosti.
Quanti ne siano stati
trovati non si sa, ma è certo che non fu un’impresa facile, perché a
sorvegliare i tesori nascosti rimanevano i fantasmi dei proprietari che
ostacolavano in ogni modo l’avvicinamento alle loro proprietà.
Le leggende e i
racconti a tal riguardo sono tanti e
molti sono pervenuti a noi più dalla trasmissione orale che non da
documentazione scritta.
Certo è che ancora
oggi siamo presi dal fascino di queste narrazioni e sogniamo di accaparrarci,
prima o poi, un tesoro nascosto chissà
dove.